Ormai ci siamo, il referendum costituzionale del 4 dicembre è alle porte, e gli italiani sono chiamati alle urne: da una parte della scheda ci sarà il SI, che propone una riforma della Costituzione, mentre dall’altra ci sarà il NO, per respingere la riforma costituzionale proposta.
Analizziamo ora,
attentamente,punto per punto, con l’obiettivo di fare chiarezza, il testo che
gli italiani si ritroveranno davanti alle urne.
Il primo
punto è quello concernente il “superamento del bicameralismo paritario”.
Innanzitutto per una miglior comprensione va chiarita quella che è la struttura
del Parlamento italiano: questo è basato su due ‘camere’, la Camera dei
Deputati ed il Senato, di pari livello e potere decisionale. Il superamento di
questo sistema, appunto chiamato “bicameralismo paritario”, passerà da varie
misure adottate nei confronti del Senato e dei senatori; infatti: il Senato NON
potrà più votare la fiducia al governo, NON potrà più votare le leggi
promosse dallo Stato e soprattutto diventerà la sede di discussione delle
politiche locali italiane, in quanto i
nuovi senatori saranno sindaci e consiglieri regionali, opportunamente
eletti nei consigli regionali (questi aspetti saranno meglio chiariti più in
avanti nell’articolo, quando si parlerà della revisione del Titolo V della
parte II della Costituzione). Ovviamente il SI con queste misure,
dimostra la volontà di creare un Parlamento più snello e con più potere
decisionale, che garantisca maggiore stabilità ai governi, affinchè possano
governare con meno compromessi.
D’altro
canto il NO resta a favore del sistema attuale, basato sul compromesso,
che risulta tuttavia spesso cavilloso e controproducente all’azione stessa del
governo (che, per inciso, non è MAI stato eletto direttamente dai cittadini. Anche
nel nostro attuale ordinamento non è prevista l’elezione della compagine di
governo).
I
successivi punti di modifica proposti nel referendum, ossia “la riduzione del
numero di parlamentari”, il “contenimento dei costi di funzionamento delle
istituzioni” e la “soppressione del CNEL”, rientrano in un ampio progetto di
abbattimento dei costi della politica, perseguito ovviamente dal SI.
Infatti,
innanzitutto il processo di riduzione delle spese della politica passerà dalla
riduzione del numero dei senatori, i quali saranno 100 e non più 315. Ma
soprattutto (per quanto riguarda la voce ‘risparmio’) non riceveranno più gli
oltre 14.000 € mensili previsti dallo stipendio da senatore, ma manterranno lo
stipendio previsto dall’incarico già ricoperto (sindaco o consigliere regionale). Il NO
invece contrasta queste proposte di modifica, richiamandosi principalmente a
due tesi: -al fatto che i senatori non saranno
eletti direttamente dal popolo
-alla
situazione delle immunità
Per
quanto concerne il primo punto, va detto che questa tesi non è propriamente
veritiera, perché i senatori sono comunque già stati eletti dal popolo nei
rispettivi incarichi. Ciò legittima, di conseguenza, la rappresentanza verso i
propri elettori.
Invece
riguardo il discorso delle immunità parlamentari, va innanzitutto chiarito che
le preoccupazioni del NO, sono rivolte al fatto che il Senato diventi un comodo
‘parcheggio’ per coloro che detengono processi a loro carico,non ricordandosi
purtroppo che attualmente ci sono comunque individui su cui pendono accuse
penali.
passiamo ora al più discusso e complesso
punto della riforma: la modifica al Titolo V della Costituzione; soffermiamoci
pertanto sulla struttura della nostra Costituzione. Questa è formata da 139
articoli e 18 disposizioni transitorie finali. I primi 12 articoli sono
dedicati ai “Principi fondamentali della Repubblica”, mentre i restanti
si dividono in due parti:
- “Diritti e Doveri dei cittadini”: divisa a sua volta in 4 Titoli (Rapporti Civili, Rapporti etico-sociali, Rapporti economici e Rapporti politici).
- “Ordinamento della Repubblica”: suddivisa in 6 Titoli (Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Magistratura, Regioni, le Province, i Comuni, Garanzie Costituzionali).
Quindi, il Titolo V della Costituzione
(composto dagli articoli che vanno dal 114 al 133) è quella parte
che regola le autonomie delle Regioni e degli enti locali.
Il Titolo V è stato già revisionato nel 2001,
sotto il Governo Amato, l’obiettivo della riforma era di riformare lo Stato in
senso federalista. Per questo alle Regioni vennero affidate diverse
competenze che fino ad allora erano riservate allo Stato.
Tuttavia, la riforma del Titolo V ha lasciato
l’onore di far cassa allo Stato poiché non c’è stato un aumento
dell’autonomia fiscale delle Regioni. Ciò ha creato non pochi problemi
perché alle Regioni è stata data completa autonomia in materia di spesa su
moltissime materie potendo decidere persino l’ammontare degli stipendi di
consiglieri e degli assessori in carica.
Insomma, alle Regioni e agli enti locali
è stata data la possibilità di aumentare le loro spese ma a pagare è comunque
lo Stato che deve trovare i fondi necessari.
Pensate che negli anni che vanno dal
2000 al 2010 le Regioni hanno speso in totale 89 miliardi, il 74,6% in
più di quanto fatto nel decennio precedente. Gli analisti concordano sul fatto
che questa crescita è imputabile al nuovo ruolo istituzionale assunto dalle
Regioni e dagli Enti Locali in seguito alla Riforma del Titolo V della
Costituzione.
Per questo motivo tra le novità della
riforma costituzionale voluta dalla Boschi c’è una nuova revisione del
Titolo V della Costituzione. Come vedremo in seguito una delle misure principali
riguarda il ritorno allo Stato di competenze fondamentali, come quelle dell’energia
e delle infrastrutture. La riforma Boschi, quindi, centralizza
nuovamente alcune delle competenze dello Stato che con la revisione del 2001
erano state delegate alle Regioni.
L’articolo 31 del testo della riforma costituzionale modifica l’articolo 117 del Titolo V della Costituzione
determinando un aumento delle materie di esclusiva competenza dello Stato.
In questo articolo vengono individuate
alcune materie di competenza regionale, e segna la fine della legislazione
concorrente tra Stato e Regioni. In più viene introdotta la clausola di
supremazia che permette alla legge dello Stato di intervenire in materie
riservate alla competenza legislativa delle Regioni nel caso in cui il Governo
ne rilevi l’interesse nazionale.
Nel dettaglio, lo Stato avrà
legislazione esclusiva sulle seguenti materie:
- politica estera;
- immigrazione;
- rapporti tra Repubblica e confessioni religiose;
- sicurezza dello Stato e Forze Armate;
- sistema tributario e contabile dello Stato e mercati finanziari;
- organi dello Stato e leggi elettorali;
- organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
- ordine pubblico e sicurezza;
- cittadinanza;
- giurisdizioni e norme processuali;
- determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale
- istruzione;
- previdenza sociale;
- ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane;
- protezione dei confini nazionali;
- pesi, misure e determinazione del tempo;
- tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici;
- professioni;
- produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia;
- infrastrutture.
Alle Regioni, invece, spetta la potestà
legislativa in materia di:
- rappresentanza delle minoranze linguistiche;
- organizzazione dei servizi sanitari e sociali;
- promozione dello sviluppo economico locale;
- promozione del diritto allo studio;
- valorizzazione e organizzazione regionale del turismo.
Come possiamo vedere con la riforma
costituzionale ci sarà una profonda riduzione delle materie su cui le Regioni
possono legiferare. Inoltre, visti i problemi in materia finanziaria derivanti
dalla revisione del 2001 del Titolo V, l’autonomia concessa alle Regioni dallo
Stato sulle materie “residuali” (come l’organizzazione della giustizia
di pace o il turismo) sono sottoposte alla condizione per cui la Regione abbia
un bilancio in equilibrio tra entrate ed uscite. Sarà comunque il Senato ad assolvere il compito di
rappresentare le istanze territoriali a livello nazionale e soprattutto a
fungere da raccordo tra enti locali ed organi centrali, motivo per cui le
Province vennero effettivamente istituite.
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Ivano Agrusti
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Antonello Sisto